domenica 14 ottobre 2012

Cacciatore e preda


Il treno penetra dolcemente la notte, con il suo contenuto di anime, corpi e storie.
Sono uno dei suoi passeggeri e posso solo immaginare le vita ed i pensieri di coloro che con me condividono questo breve viaggio.

Nel sedile accanto al mio vedo un uomo che ha notato il mio insistente frugare tra i passeggeri. Appena si rende conto che lo osservo volta la sguardo. Occhi chiari, nervosi, nascosti da spessi occhiali tondi.
Spesso sposta di nuovo lo sguardo timoroso ma insistente per vedere se lo guardo ancora. Forse sono io, con il mio aspetto che lo intimorisco, eppure, questo gioco di sguardi, da preda ricca di dettagli da cogliere e cacciatore curioso mi diverte.
Veste in modo classico. Forse un impiegato. Nella mia mente ne assume subito la forma e i miei occhi vagano per cercare i particolari stereotipati che ne diano la conferma.
Posizione composta, colletto della camicia che fuoriesce da un maglione grigio, sobrio fino alla monotonia, orologio dozzinale, braccia strette attorno al tesoro più grande: una valigetta che dalla forma pare contenere un computer portatile.
Sulla testa, la calvizie tipica, indice di stress, come i capelli bianchi mal celati da una tinta sbiadita.

Il sonno mi rapisce per qualche minuto, giusto il tempo di mettere la mia preda a suo agio.
Quando riapro gli occhi, le sue dita viaggiano veloci sulla tastiera del computer tanto protetto prima. Gli occhiali sono cambiati, sostituiti da quelli che sembrano specifici per la lettura. Lo sguardo non è più timoroso, ma rimane nervoso, quasi psicotico. I riflessi delle immagini sul monitor gli danno un'aria minacciosa. Con la coda dell'occhio, nota che ho di nuovo gli occhi aperti e che seguito ad osservarlo. Sulle prime, quasi conscio e spavaldo del suo aspetto più inquietante del precedete, mi sfida apertamente fissandomi negli occhi, ma dura poco. Distoglie lo sguardo e ritorna al lavoro ma non è più sereno. Sbaglia ripetute volte battendo sulla tastiera e rimuove gli errori imprecando sottovoce, quasi mimando solo le parole. Poi, ricordandosi di essere osservato, sostituisce le imprecazioni con spasmi nervosi ai lati della bocca.
Si arrende alla macchina e la spegne per riporla nel suo contenitore. Gli occhiali ritornano quelli di prima. Si prepara ad essere divorato nel suo intimo, ma sono soddisfatto e mi riconpongo al mio posto, cosciente che lui non sarà sereno finchè non poggerà di nuovo piede sulla banchina al nostro arrivo, libero di fuggire dai miei sguardi.

(2005)

sabato 13 ottobre 2012

Ambizione

Per oggi niente racconti, ma un po' del mio pensiero attuale.

L'ambizione è dolorosa, specie quando la meta è distante e sembra irraggiungibile, quando sulla tua strada si profilano più ostacoli che occasioni ed è facile cedere allo sconforto, alla depressione.
Personalmente ho due sogni, legati uno all'altro ed entrambi vacillano spesso, ma restano.
Perché?
Perché nonostante la fragilità, l'instabilità della mia psiche, sono testardo e se tengo a qualcosa, sbatto la testa fino a romperla, per poi medicarla e tornare a sbatterla.
Da un certo punto di vista, i periodi di merda, hanno la loro utilità: aiutano a scegliere le persone che vuoi tenere accanto nel tuo percorso, scindere quelle che ti stanno accanto a prescindere e quelle che lo fanno perché quando sei radioso, hai la forza distruttiva di un uragano intrappolata nella mente e sai come liberarla.
Il lato negativo è che la depressione rende ciechi e pur sapendolo, non si riesce a vedere. A volte c'è bisogno di qualcuno che sappia tenderti una mano e accompagnarti fuori dall'oscurità in cui ti sei perso, ma quando hai poche persone di cui ti fidi davvero, è tosta.

Ho due grandi sogni e li avvererò, o soccomberò dando tutto me stesso e anche più di quel che posso dare, perché questo vuol dire essere me, donare a prescindere da quel che si ha.
La strada è lunga, tortuosa ed ho solo intravisto le insidie che nasconde, ma il traguardo, va ben oltre ogni contentino possa dare la vita.
Non mi interessa l'arrivo facile, la spintarella per arrivare in fondo. Preferisco devastarmi di continuo, ma fare tutto con le mie forze, anche se molte volte mi sembra di non farcela e mi fermo.
So cosa ho dentro, passo fin troppo tempo ad analizzarmi per non saperlo e so bene che se giudico merda tutto quello che faccio, è solo perché so di poter dare di più, o meglio VOGLIO dare di più.
Ogni livello di apprendimento, implica un più alto livello di critica e il peggior critico che troverò sulla mia strada, sono io. Continuerò a distruggere il mio lavoro perché non mi basta mai. Io cerco la perfezione, quella assoluta ed insindacabile, non quella che soddisfa che guarda la tua opera, ma quella che finalmente mi porterà ad amarmi.

Negli ultimi tempi, mi è stato più volte dato del genio e personalmente non penso di meritarlo, non ancora. Mi è stato riconosciuto un talento che ancora è più che latente. Vorrei tanto che chi mi riempie di complimenti possa vedere con i miei occhi per un giorno, sentire quello che sento, provare quel che provo, immaginare quel che immagino. Solo a quel punto potrebbe capire REALMENTE dove voglio arrivare e capirebbe quanto banale e maldestro sia tutto ciò che ho creato finora.
Forse sono davvero un genio, ma ancora non l'ho dimostrato. Tutto quel che avete visto, non è che un pallido riflesso di quello che vorrei esprimere. Certo, c'è cuore, perché lo metto in tutto quel che faccio, rischiando più volte di ferirlo per l'ennesima volta e non riuscire più a rialzarmi, eppure continuo, a volte correndo a volte strisciando, ma continuo, perché non c'è nulla di più bello del mio traguardo: la felicità.

Un grazie sentito per quelle persone che credono in me anche quando non ci credo io, che nonostante i miei tentativi di isolarmi, continuano a starmi vicino. Grazie dal profondo della mia anima.

venerdì 12 ottobre 2012

Sharon Tate

La luce invase la stanza con violenza. Il buio era stato padrone li per molti anni.
"Mette i brividi vero?" - disse Sara guardandosi intorno - "Si, ma è solo il concetto che hai di questo posto. Pensa di essere nella vecchia casa dei tuoi nonni." - commentò asciutto Gavin togliendo una torcia dalla cinta porta arnesi.
Dal retro della casa si sentì una voce che urlava: "Fatto! Andata?" - Gavin si sporse dalla porta ed urlò in risposta - "No! Credo abbiano staccato tutto! Dovremo arrangiarci! Vieni a dare un'occhiata, voglio un parere!".
Un ragazzo magro e slanciato in camicia hawaiana e jeans spuntò dal retro e si diresse verso l'ingresso - "Che vuoi sapere?" - disse rivolgendosi a Gavin. Per tutta risposta quello gli mise la torcia in mano e lo spinse attraverso la porta - "Voglio sapere se riesci a dargli la luce adatta con quello che abbiamo".
Stan puntò la torcia verso il lampadario ricoperto di ragnatele. Un tempo doveva essere stato uno splendore, in cristallo e ferro battuto. Ora gran parte dei prismi di cristallo erano rotti e molti giacevano sul pavimento con la piccola asola di aggancio che spuntava come un moncherino.
"Credo che anche un incompetente potrebbe fare qualcosa di favoloso qui! Si respira ancora l'odore di sangue" - disse Stan elettrizzato. Al sentirlo, Sara annusò l'aria, facendo scoppiare in una fragorosa risata gli altri due.
"Scusa Sara, è che delle volte, non capisco davvero se sei ingenua o cosa!" - disse Gavin cercando di non riprendere a ridere. Sara li guardò con la classica faccia di chi ha in mente solo un gigantesco punto interrogativo "Perché dici questo?" - chiese. Il ragazzo la guardò per qualche secondo, poi con un gesto della mano liquidò la faccenda - "Niente, tranquilla. Scarichiamo il furgone?".
I tre ragazzi si diressero verso il piccolo furgone rosso parcheggiato nel vialetto ed iniziarono a scaricare faretti e stativi. Sara prese una cartella e da dentro prese un foglio.
"Gavin.. qui dice INIZIO RIPRESE ORE 19.00, è una versione sbagliata del piano di lavorazione?" - il ragazzo le passò accanto con un grosso rotolo di cavi - "No no, è quello giusto". Sara scosse la testa - "Ma sono le 8 del mattino! Cosa facciamo qui da quest'ora?" - "Vedrai!" - rispose Gavin prima di oltrepassare la porta.
La ragazza andò sul retro del furgone - "Cosa dobbiamo fare prima dell'arrivo degli attori?" - chiese a Stan. Il ragazzo la guardò e con un sorrisone le rispose - "Vedrai!".


Ora la stanza era perfettamente illuminata. Stan sapeva esattamente come arrangiarsi con poco e non perdeva occasione per dare sfogo al suo talento.
"Bene, siamo pronti" - disse Gavin - "Qualcuno di voi è a conoscenza della leggenda di The Downward Spiral?" - gli altri due ragazzi scossero la testa - "I Nine Inch Nails, registrarono l'album all'interno della casa di Sharon Tate, la villa dove Charles Manson e la Famiglia massacrarono lei e tutti gli invitati. La leggenda dice che in alcune tracce dell'album, si sentano dei rumori che non sono stati inseriti dalla band" - Sara si alzò in piedi - "No Gavin! Avevi detto niente sperimentazioni macabre!" - e si incamminò verso la porta. Stan corse verso di lei per fermarla - "Tranquilla! Nessuna sperimentazione macabra. Ma non abbiamo scelto questo posto a caso. Qui, 20 anni fa, un padre di famiglia perse la testa e prima di suicidarsi, massacrò la famiglia, c'è chi dice con un fucile e chi sostiene che usò un martello. Il punto è il seguente: siamo bravi in quel che facciamo, ma ai festival, i nostri lavori vengono ignorati. Certo, il pubblico di nicchia ci adora, ma noi vorremo avere qualche riconoscimento ufficiale. Cosa potrebbe dare abbastanza rilievo ad una produzione a basso budget come la nostra? Pensa a The Blair Witch Project! Con una bufala e pochi dollari, hanno fatto un pezzo di storia del cinema. Suggestione, tutto qui".
Sarà si calmò - "Ma perchè venire qui da presto?" - protestò. Gavin le andò incontro e la abbracciò - "Una bufala, va saputa raccontare ed io sono un perfezionista, quindi voglio delle ambientali dell'ora esatta della carneficina. Un conto e dire di averlo fatto, un altro è farlo davvero! Non sentirai nulla, te lo assicuro" - si spostò verso il centro della sala, sotto il lampadario ed allargando le braccia disse - "Questo posto è morto come i suoi proprietari!". L'eco portò la voce di Gavin in tutte le stanze della casa. Quando il silenzio tornò a regnare, Sara, titubante ma decisa a fare quello che le chiedeva il suo regista, tirò fuori dallo zaino le cuffie, aprì il portatile e collegò il microfono.
"Datemi 10 minuti di silenzio assoluto ragazzi!" - disse, ma Gavin e Stan erano già dietro di lei e fissavano il monitor del computer.
Rec.


Il silenzio era totale, al punto di riuscire a distinguere chiaramente il suono del loro respiro.
A un certo punto, sullo schermo ci fu un leggero picco. Stan, senza dire nulla indicò il monitor e guardò Gavin che annuì con gli occhi spalancati. Un altro picco, questa volta leggermente più forte e costante. Il regista si morse un labbro eccitato per quello che stava avvenendo, mentre il fotografo si guardava intorno, leggermente allarmato. Un terzo picco, sempre più alto. Gavin si portò le mani davanti al viso e continuò a fissare lo schermo con gli occhi sempre più spalancati.
Un picco, un altro, un'altro ancora, come un battito cardiaco, regolare e continuo.
Silenzio. Sara non si era mossa, era rimasta immobile a fissare lo schermo. Solo quando fermò la registrazione, gli altri due si resero conto che stava piangendo.
"Sara, che c'è?" - disse dolcemente Gavin. La ragazza si alzò di scatto, togliendosi le cuffie e buttandole a terra - "Sei una testa di cazzo!" - disse singhiozzando - "Solo una grandissima testa di cazzo!" - spinse Gavin contro la parete e si diresse verso un angolo. Stan le andò dietro e le cinse le spalle, tentando di rassicurarla.
Il giovane regista raccolse le cuffie da terra e le indossò.
Play.


Silenzio e qualche leggero rumore di fondo. Dopo un paio di minuti, un suono acuto, distante. Ancora qualche minuto, il suono sempre più vicino e più distinguibile: il vagito di un bambino.
Gavin spalancò gli occhi. Il vagito divenne sempre più chiaro e all'improvviso un tonfo seguito da un altro ed un altro ancora. Man mano che i tonfi si susseguivano il giovane capì quel che stava ascoltando. Colpi di martello.

mercoledì 10 ottobre 2012

Notturno


Più la guardo e meno riesco a coglierne il senso, la forma. Sta sul soffitto della mia camera da letto, impassibile, come se la mia presenza non la riguardasse. So che basterebbe accendere la luce per cacciarla, ma non voglio.
La sua sinuosità, il suo senso così sfuggevole, mi affascina. Potrei perdermi in quei contorni dettati da chissà quale riflesso.
Sono immerso al suo scuro corpo. Navigo con la mente su quello che un tempo era il mio soffitto, così scontato, così candido. Ora, nelle tenebre della notte, costellato di ombre assume il fascino ancestrale di un quadro dipinto da un pazzo.
Il sonno mi ha abbandonato da tempo. Mi sembra quasi che quando sposto lo sguardo, le macchie si spostino, spinte da qualche oscura corrente, o da un burlesco gioco perpetrato alla mia serenità. Domani mi sveglierò, e scoprirò la banalità degli oggetti che le hanno proiettate, ma non ora. una pioggia di luce incandescente le ferisce per un secondo. Una macchina sfreccia a pochi metri da me, e la serranda filtra le sue luci, trasformandole in lame che tagliano le mie amiche.
Loro però sono resistenti, e in pochi secondi sono di nuovo al loro posto, beffarde e immobili.
Ora decido appoggio il mio dito sull'interruttore, preparandomi alla banalità di un soffitto senza ombre.

CLIC.

(2005)

Lucida-mente


Ho chiuso. Stavolta ho davvero chiuso. Appoggio gli occhiali sul cornicione e sento per l'ultima volta il vento freddo che mi scompiglia i capelli vado giù veloce, giusto il tempo di riorganizzare tutti i pensieri e forse, rivedere la vita come un film come si dice. Attendo l'impatto, quello che mi darà finalmente l'oblio di una dolce morte poco dolorosa. A breve la mia testa si fracasserà sull'asfalto di sotto e io smetterò di pensare. Quel che avverrà dopo non mi importa. Eccolo lo vedo è vicino.
Impatto!


C'è qualcosa che non va. Non sento dolore ma vedo tutto. Una piccola folla mi si è raccolta intorno. Una ragazza grida. Non devo essere un bello spettacolo. Vorrei alzarmi e scappare, ma non riesco a muovermi. Non ho alcuna voglia di spiegare perché l'ho fatto. Troverò un posto più alto appena riuscirò ad alzarmi.
Non sento nulla. Non riesco a chiudere gli occhi. Riprovo. Piano. Muovi un dito. Forza! Nulla.
Intanto è arrivata l'ambulanza. Mi aspetto già le domande. Perché, percome, per chi. Non risponderò.
Un paramedico mi tasta il collo. Non sento la pressione delle dita. Un pensiero mi aggredisce con violenza: e se avessi danneggiato qualcosa nella caduta e ora fossi paralizzato? Oddio no! Non lo sopporterei! Tutta la vita a pensare e non potere agire! Non potrei nemmeno farla finita perché non riesco a muovermi.
Il paramedico ritira la mano e guarda il portantino accanto a lui scuotendo la testa. Che succede? Sono vivo!
Nel frattempo è arrivata la polizia. Vedo il paamedico che va verso l'agente sceso dalla macchina. L'agente mi guarda e scuote a sua volta la testa.
Un altro portantino scende dall'ambulanza con un lungo sacco nero in mano. Ora i portantini aiutati dal medico mi adagiano nel sacco e chiudono.
Ora è buio.
C'è un errore! Io non sono morto! Ragiono, vedo, sento ogni cosa, tranne il dolore.
Sento ogni singolo rumore, ogni fruscìo del mio corpo sulla tela plastificata del sacco, lo sciabordio del sangue che si va accumulando sul fondo.
Il mio orrore cresce sempre di più. Ora l'ambulanza si è fermata. Aprono il portello.
Deve essere arrivato il momento in cui mi analizzeranno il sangue per stabilire se fossi drogato. Allora il coroner capirà che sono ancora vivo e io passerò tutta la vita che mi rimane su una fottuta carrozzina. Vedo la luce. la faccia di un uomo dai folti baffi grigi che mi guarda. Quei freddi occhi osservano il mio corpo. Ora prende una siringa e la affonda nella carne. Non sento nessun dolore. Aspetto il momento in cui si renderà conto che sono ancora vivo.


Inizio a pensare che qualcosa non va.
Un freddo pensiero mi attraversa la mente come una dolorosa scarica e capisco. Io sono morto sul colpo, ma la mia mente è viva! E' dunque questa la morte? L'eterna coscienza di essere morti? Nessun paradiso, nessun oblio! Solo lucida coscienza della propria morte. Un'infinità da passare a pensare? Ora vorrei rivivere! Lo vorrei davvero. Vorrei non avere mai fatto il tuffo. Voglio tornare indietro nel tempo e andarmene da quel cornicione, riabbracciare tutte le persone che amo e mi amano.


E' passato già un giorno dalla mia morte. Ora stanno chiudendo la bara. Ho visto tutte le persone a me care piangere per me ed io avrei voluto piangere con loro, urlare, ma non ho potuto. Starò al buio per l'eternità.


Sento freddo.

(2005)

martedì 9 ottobre 2012

L'antico Saggio

Con il cuore che batteva all'impazzata, Rithion si avvicinò al torrente. Il vento notturno accarezzava dolcemente il suo corpo nudo, facendolo rabbrividire.
"Ora, immergiti e lascia che l'acqua culli i tuoi sensi, dovete essere un tutt'uno" - disse il grohm con la sua voce stridula.
Il giovane si immerse nell'acqua, scoprendola tiepida, nonostante fosse una notte fredda. Sprofondò nel liquido fino al collo e tornò a guardare la sua guida.
"Ora, lasciati andare e lui verrà da te" - disse il grohm.
Rithion vuotò la mente dai pensieri e lentamente, il suo cuore smise di cavalcare come una mandria di satiri.
Chiuse gli occhi e lasciò che la corrente plasmasse la sua pelle e placasse la tensione dei suoi muscoli.
Quando riaprì gli occhi, vide inanzi a se il riflesso della luna sul fiume, allungato attraverso il dolce movimento dell'acqua. Nella sua mente, vedeva una sottile lama di luce, che lo chiamava a se.
Una voce distante, sussurrava suadente nei suoi pensieri: "Ora che sai dov'è, prendila e se sei pronto, essa sarà tua".
Allungò la mano, rilassato, ma timoroso nei confronti di ciò che avrebbe percepito. Man mano che le sue dita si avvicinavano al riflesso, esso rallentava il suo ondulare e quando stava per toccarlo, era immobile, galleggiava sulla superficie. Lo afferrò e la sua mano, percepì qualcosa di solido e freddo.
"Ora puoi uscire dall'acqua" - disse la voce distante - "e rinascere come una nuova essenza"
Man mano che la frase veniva pronunciata, si avvicinava e mutava, da calda e distante a vicina e stridula. Gelfed guardò soddisfatto Rithion ed in particolar modo, la spada che teneva in mano.
"Prima che si disciolga, rendila una parte di te" - disse il folletto.
Rithion, aprì il palmo della mano sinistra e poggiatavi al centro la lama, la fece scorrere contro la pelle, macchiandola di sangue. La gemma incastonata sull'elsa, che fino a quel momento era candida come la luna, si colorò di rosso ed il giovane stregone sentì una sensazione mai provata prima. Riusciva a contare le gocce d'acqua che scivolavano sulla sua pelle, nel vento, distingueva un canto soave e gentile, anche se malinconico e nell'aria, vedeva fluttuare centinaia di piccole luci, dal colore azzurro. Guardò Gelfed - Questo dunque è il potere che avete donato al mondo?" - disse in un sussurro, piegato dalla bellezza di ciò che lo circondava.
"Questo è un potere molto più antico. Vive in ogni cosa da prima che la coscienza potesse camminare" - rispose il grohm - "Vieni, ti mostro una cosa".
Prese la mano del ragazzo e si incamminò dentro il vicino bosco.



Non è facile descrivere la maestosità di un Saggio, la sensazione che si prova osservandolo è la certezza che lui si trovi li dall'alba dei tempi, con le lunghe braccia pallide protese verso il cielo e le dita dei piedi affondate nella terra. Il suo canto melodioso e triste riempiva le orecchie e l'anima di Rirhion.
"Questo è uno degli ultimi grandi Saggi, uno dei più antichi" - disse Gelfed facendo un profondo inchino davanti all'albero bianco - "Lo senti vero? Il suo canto". Lo stregone non rispose. Il suo petto si gonfiava e sgonfiava ritmicamente ed il suo cuore aveva ripreso il suo sfrenato galoppare. Aveva gli occhi sbarrati, ipnotizzati dal globo pulsante che si trovava tra le radici di quell'essere.
Gelfed notò il suo interesse e si avvicinò a quella strana escrescenza - "Questo, è il suo cuore. Tramite questo, convoglia le energie e le volontà della terra e le disperde nell'aria, affinché la magia possa diffondersi per il mondo. Anche solo sfiorarlo, dona un potere immenso" - spiegò.
Lo Sguardo del giovane stregone si illuminò di gioia, ma la sua bocca era deformata da un ghigno sadico - "E assumerne direttamente la linfa? Quanto potere da?" - mormorò. Il folletto lo guardò spaventato - "No Rithion, non è una cosa saggia bere direttamente dal cuore. La sua forza non è fatta per gli esseri umani. Sei davanti ad un antico Dio, mostra un po' di rispetto per la sua grandezza!".
Rithion non si mosse e la sua mano si saldò fermamente sull'elsa del suo nuovo athame - "Riesco a sentire la sua grandezza e la desidero. Diventerei il più grande, il più temuto, mi donerebbe l'immortalità. Questo dice la sua canzone". Il suo sguardo diveniva ogni secondo più cupo e folle ed il folletto, gli andò incontro.
"Rithion, non puoi.." - provò a dire Gelfed con tono gentile - "Zitto!" - disse lo stregone innervosito - "Non ho bisogno delle tue parole ora, folletto! Mi attira a se, lui vuole che io mi nutra da lui! Mi chiama!".
Il grohm indietreggiò intimorito - "Ti attira a se perchè la tua magia viene da lui, è normale, ma non farti ingannare dal tuo nuovo potere, tu non puoi sopportare così tanto.." - gemette Gelfed - "Io no, ma tu.." - disse Rithion mentre avanzava minaccioso verso il folletto. Lo afferrò per la gola e lo trascinò vicino al cuore pulsante. Vi si inginocchiò davanti percependone maggiormente lo sconfinato potere. Con la mano sinistra, affondò la lama dell'athame a fondo nell'escrescenza e subito, un acuto grido si levò tra le fronde maestose dell'antico Saggio. Gelfed si divincolava dalla presa dello stregone, ma era troppo tardi. Rithion poggiò le sue labbra sulla ferita pulsante ed il corpo del folletto si contorse, mentre un'ondata di luce attraversava il corpo del suo irato allievo e si riversava in lui, accecante, bollente, e potente.
L'urlo tra le fronde andò pian piano affievolendosi e Rithion smise di bere dal cuore. Allentò la presa dal grohm che ne approfittò per liberarsi dalla sua presa ed allontanarsi. Le lacrime colavano copiose dai suoi grandi occhi, mentre il suo nuovo padrone, inginocchiato tra le radici, levava lo sguardo al cielo e cantava - "Luce della terra, fuoco degli dei. Luce della terra, fuoco degli dei. Luce della terra, fuoco degli dei. Luce della terra, fuoco degli dei. Luce della terra, fuoco degli dei. Luce della terra, fuoco degli dei....".
Gelfed si coprì le orecchie con le mani ossute, ma quella canzone rimbombava nel suo petto, nelle sue vene e lo smembrava pezzo a pezzo.
Luce della terra, fuoco degli dei. Un Dio era morto ed ogni grohm del pianeta, ne piangeva la scomparsa.

lunedì 8 ottobre 2012

Improvviso

Questo racconto è da leggere con questo sottofondo Schubert - Improvviso Op. 90 n. 3 o per lo meno, è consigliabile.

Il vialetto è quasi totalmente sommerso dalle foglie secche cadute dagli alberi. Quando soffia il vento, sembra di sentire il mare durante una tempesta e guardandole, sembra quasi di scorgere i riflessi del tramonto sull'agitazione dell'acqua, eppure sono foglie, e tali restano, come me, che resto dentro casa ad osservarle dalla finestra.
Non guardo la televisione, a dire il vero, ho perso anche il telecomando e non so se l'apparecchio funziona ancora. Passo le mie giornate in solitudine, ogni tanto scrivo, ogni tanto disegno ed ultimamente, ho riavvicinato le dita al vecchio pianoforte ereditato da mio padre. Lo stesso pianoforte, che durante la mia infanzia mi è stato negato, anche con severe punizioni, quando in silenzio mi avvicinavo e ne spiavo i tasti e poco a poco, immemore della cautela, ne premevo uno, poi un'altro ed un'altro ancora, per permettere a quel suono dolce e profondo di sconquassarmi l'anima. Quasi immediatamente, mi pentivo di avere provato quel piacere, lacerato dalla cinghia di mio padre che con il suo schiocco secco, mi riportava alla realtà della mia infrazione.
Per tutta la vita ho portato i segni della sua violenza e delle sue negazioni. Quando ho scoperto le ragazze, durante l'adolescenza, e timidamente ho provato ad avvicinarmi a loro, nel momento preciso in cui stavo per essere felice, mi negavo di esserlo, scappando, lasciando tutto a metà. La stessa cosa è avvenuta negli studi, sul lavoro, in ogni singola cosa che potesse donarmi gioia, la boicottavo, come se il piacere mi fosse precluso.
Solo ora, nella mia solitudine, a distanza di anni, mi concedo quello che fu il piacere ancestrale, suonare quel vecchio e ingombrante pianoforte, carezzarne i tasti e conoscere ogni sfumatura del loro colore, dal bianco al rosso, al nero. Il candore di quelle note, sovrapposto, ora diventa poesia ed armonia, come pennellata su un dipinto che tratto dopo tratto, mostrano la bellezza rubata ed intrappolata sulla tela, come le lettere che preso il giusto ordine, fanno percepire persino odori, colori e rumori mai sentiti. Questo avrei voluto dire a mio padre, fargli capire che non volevo distruggere il suo tesoro, ma condividere tutta questa bellezza con il mondo. Mentre moriva, mi ha sentito suonare per la prima ed ultima volta ed ha pianto, ed io, con lui. Gli ho stretto la mano, mentre lentamente il sangue si infiltrava nelle trame del tappeto. La melodia dell'Improvviso n.3 di Schubert mi echeggiava ancora nella mente, mentre con calma, lo portavo in giardino e nel silenzio della notte lo seppellivo, li dove ora ci sono le foglie, e nel vento sembrano un mare in tempesta.

Eternità

I vampiri non vivono in eterno, chi lo afferma, non ne ha mai conosciuto uno.
I vampiri cercano la morte, ma non come lo fanno gli esseri umani, con timore e nessuna certezza di ciò che verrà dopo, ma con dolcezza. Per capirlo, devo spiegarvi il perchè della nostra esistenza. Si, nostra, sono un vampiro, anche se nessuno lo sa.
Ognuno di noi, nasce in modo differente, ma con lo stesso filo conduttore.
Di solito, chi si suicida per una delusione amorosa, diventa uno di noi. Il senso, me lo ha spiegato Michael, un vampiro che conoscevo ed ora, per sua fortuna, è morto. Si, per sua fortuna, perchè un vampiro, può morire, solo quando trova la sua anima gemella. Lui mi spiegò che è perfettamente sensato, una giovane vita viene strappata alla vita per amore e gli viene data una seconda possibilità, sotto una forma diversa e con innumerevoli sacrifici. Deve dimostrare di volere veramente ciò per il quale si è tolto la vita. Per questo gli viene vietata la luce del sole ed è obbligato ad uccidere e bere sangue (non è nutrimento, serve solamente a tenere caldo il nostro cadavere). Nell'orrore di questa vita, un vampiro capisce, diviene cosciente di ciò che è davvero importante: invecchiare accanto a qualcuno. Esatto, avete capito bene, quando un vampiro incontra la propria anima gemella, invecchia e muore, come un qualsiasi essere umano. Non deve più cercare sangue per scaldarsi perchè ha qualcuno che gli incendia il cuore e l'errare di notte, non è più una condanna, in quanto concede di vegliare sui sogni della propria amata.
Tuttavia, questa ricerca, è lunga e per molti di noi va avanti da secoli.
Ah, quante volte ho creduto di aver trovato la mia. Avevo la quiete, tutto era perfetto, eppure, continuavo ad essere giovane e la mia sete non si estingueva.
Solo alla fine ho capito. La complessità, questo contraddistingue la realtà da un miraggio.
Nella mia anima gemella, ho trovato il caos, l'instabilità, la sofferenza, tutto ciò che è proprio dell'amore umano, il vero amore, quello che ti fa tornare da lei, nonostante tutto, quello che ti fa apprezzare una carezza dopo un violento litigio. Questo ci uccide e noi rincorriamo la nostra morte, la desideriamo, più di ogni altra cosa al mondo, la morte accanto alla persona che ci ha restituito la vita.

La Danza dell'Oblìo

"Ma quello.." - disse titubante Gelfed - "..è veleno!"
Rithion si voltò e lo fissò torvo.
"No, è il mio sangue ed è necessario per il compimento dell'incantesimo." - replicò.
Stava chino sugli alambicchi dalle prime luci dell'alba ed ora la luna era alta nel cielo.
Capitava spesso che si attardasse tra antiche pergamene e soluzioni proibite, ma questa volta, aveva uno scopo.
"La reazione con l'infuso di belladonna dovrebbe essere differente, non è sangue!" - continuò il grohm.
Nonostante avesse 300 anni, il folletto aveva il carattere dispettoso e saccente di un adolescente e questo faceva innervosire terribilmente il suo padrone.
Rithion girò su se stesso e sollevando una manica della sua tunica, mostrò a Gelfed due profondi solchi sul polso, un evidente segno di una mutilazione rituale. Nella foga di dare dimostrazione delle sue parole, invece di mettere la prova sotto gli occhi del folletto, gli assestò un violento pugno sul fragile sterno, facendolo cadere dal tavolo, su una pila di libri.
"Non occorre essere violenti.." - disse Gelfed indispettito - "Ogni stregone ha i suoi segreti e se vuole mantenerli anche con il proprio famiglio, può farlo."
Senza curarsi della salute del suo piccolo ed anziano assistente, Rithion tornò ai suoi alambicchi.
"Meno sai di questo sortilegio, meglio è. I grohm non dovrebbero mai avvicinarsi al lato oscuro della magia."
Gelfed si rimise in piedi e fissò il giovane stregone.
"Se non fosse per me ed i miei fratelli, voi miseri umani non potreste giocherellare con gli elementi, ne conoscere gli arcani sotterranei. Lo sai perchè? Perchè è parte di noi e siamo rimasti in pochi, quindi di tanto in tanto, prova a trattare meglio chi ti da il potere. Anche un grazie, di tanto in tanto, non sarebbe brutto!"
"Certo certo, come dici tu" - disse seccato Rithion senza levare lo sguardo dal gigantesco tomo che leggeva -  "Ora, visto che ci sei, invece di gironzolarmi attorno, da una sistemata ai barattoli sullo scaffale, ho da fare"
Gelfed si allontanò dal padrone e si diresse verso lo scaffale, borbottando in dialetto grohm, ma tenendo sempre un orecchio teso ai cupi borbottii dello stregone. Aveva già visto quel nervosismo in lui, anni prima, la notte nella quale in cuore era stato trafitto. Nulla era tornato più come prima. Lo stesso Gelfed, nei suoi 3 secoli, non aveva mai vissuto una notte più terrificante di quella. Trafiggere il cuore, era considerato di per se un atto orribile. Fatto da uno stregone che aveva incontrato da poco il suo grohm era qualcosa di inconcepibile.
Ricordava nei dettagli ogni minuto, ogni lancinante lamento emesso dall'albero, persino l'oscura nenia recitata dal suo padrone, nonostante avesse fatto di tutto per dimenticarla.
Di sicuro, Rithion non avrebbe trafitto un cuore, non ne aveva più bisogno, ma in cuor suo, il folletto temeva che stesse preparando qualcosa di molto peggio.
Il barattolo che teneva in mano si disciolse in sabbia. Nella stanza echeggiava la quarta strofa del "Rompimento dell'Acqua".
Gelfed, si voltò verso Rithion.
"Inharmeth! Non Inhermeth.." - rimase con il rimprovero incastrato in gola, mentre Rithion affondava il suo athame, la sua lama rituale nel petto del folletto. Il filo della spada, era completamente pregno della pozione che stava creando, legata al metallo dal "Rompimento dell'Acqua".
Il corpo di Gelfed scivolò via dalla lama, privo di vita. La "Danza dell'Oblìo", il suo ultimo progetto, l'unica cosa in grado di uccidere un grohm, aveva funzionato ed ora era libero. Libero da quel potere devastante che aveva acquisito durante la notte del cuore, la notte nella quale aveva sacrificato uno degli antichi dei della Terra per ottenerne il potere. Solo il suo famiglio lo legava a quel voto ed ora, Rithion, era di nuovo un essere umano, senza potere, senza conoscenza. I tomi di magia presenti nella stanza si sgretolarono e l'athame si sciolse, tornando ad essere acqua e si disperse negli interstizi del pavimento di pietra. Le pozioni ribollirono fino a far scoppiare gli alambicchi e quello che un tempo era stato un potente e temuto stregone, varcò la porta del suo laboratorio per l'ultima volta e per la prima volta dopo quasi un secolo, guardò la luna con occhi umani e pianse per la sua bellezza.