martedì 9 aprile 2013

Puzzle

E' bastato poco, una tessera viene a mancare, il volto di un personaggio e tutto il puzzle, perde il suo senso. Scomporre tutto e ricominciare, questo sarebbe saggio, ma la saggezza è tra le prime tessere ad essersi dissolte. 
Posso anche cambiare gioco, fare un castello con le carte, ma quell'immagine che poteva essere perfetta, resterà li, incompleta, mutilata da un attimo di distrazione. Notte dopo notte, cerco ovunque quella piccola tessera che conosco a memoria, ogni singolo tratto stampato sul cartone pressato, ogni incastro. Ho sempre conosciuto la sua importanza, ma ora che manca, capisco quanta dedizione ho messo per costruire il tutto, tassello dopo tassello, perdendo la pazienza quando non riuscivo a trovare il giusto incastro e rallegrandomi quando invece tutto sembrava comporsi da solo.
Continuerò a cercare quel tassello, perché mi sembra impossibile che qualcosa di tanto bello debba rimanere incompleto, a costo di ribaltare stanza ed anima, lo troverò.



giovedì 22 novembre 2012

Sweet Poison - Dolce Veleno








Il cammino attraverso l'oblio e la metamorfosi. Sperimentazione ibrida di fotografie e parole in collaborazione con Nicola Figus
Volute di fumo come fiamme, avvolgono il destino di un lieto oblio.
Questo dolce veleno.
  
L'incertezza, la serpe che si avvolge intorno allo stomaco ed il dubbio.
Sarò pronto?

Il primo sorso, il calore che soppianta il gelo, scorrendo sulla lingua e placando il rettile generato dalla paranoia.

Qualcosa è già cambiato.
Do il benvenuto e brindo al nuovo essere che va creandosi.
 
Riflessioni che mai avevano sfiorato la mente, affiorano,
"come candide ossa di un antico cimitero".

Forse un altro sorso mi aiuterà a capire al meglio questa nuova personalità, così distante dal mio ego.

Dio, potrai perdonare tutto questo? L'illusoria grazia con cui mi fregio di allori di cui la mia anima non è degna?

Il fumo si è diradato, ma il fuoco arde ancora, vivido smeraldo intrappolato nel cristallo.
Un altro sorso, solo un'altro, per avere il potere di obliare

domenica 14 ottobre 2012

Cacciatore e preda


Il treno penetra dolcemente la notte, con il suo contenuto di anime, corpi e storie.
Sono uno dei suoi passeggeri e posso solo immaginare le vita ed i pensieri di coloro che con me condividono questo breve viaggio.

Nel sedile accanto al mio vedo un uomo che ha notato il mio insistente frugare tra i passeggeri. Appena si rende conto che lo osservo volta la sguardo. Occhi chiari, nervosi, nascosti da spessi occhiali tondi.
Spesso sposta di nuovo lo sguardo timoroso ma insistente per vedere se lo guardo ancora. Forse sono io, con il mio aspetto che lo intimorisco, eppure, questo gioco di sguardi, da preda ricca di dettagli da cogliere e cacciatore curioso mi diverte.
Veste in modo classico. Forse un impiegato. Nella mia mente ne assume subito la forma e i miei occhi vagano per cercare i particolari stereotipati che ne diano la conferma.
Posizione composta, colletto della camicia che fuoriesce da un maglione grigio, sobrio fino alla monotonia, orologio dozzinale, braccia strette attorno al tesoro più grande: una valigetta che dalla forma pare contenere un computer portatile.
Sulla testa, la calvizie tipica, indice di stress, come i capelli bianchi mal celati da una tinta sbiadita.

Il sonno mi rapisce per qualche minuto, giusto il tempo di mettere la mia preda a suo agio.
Quando riapro gli occhi, le sue dita viaggiano veloci sulla tastiera del computer tanto protetto prima. Gli occhiali sono cambiati, sostituiti da quelli che sembrano specifici per la lettura. Lo sguardo non è più timoroso, ma rimane nervoso, quasi psicotico. I riflessi delle immagini sul monitor gli danno un'aria minacciosa. Con la coda dell'occhio, nota che ho di nuovo gli occhi aperti e che seguito ad osservarlo. Sulle prime, quasi conscio e spavaldo del suo aspetto più inquietante del precedete, mi sfida apertamente fissandomi negli occhi, ma dura poco. Distoglie lo sguardo e ritorna al lavoro ma non è più sereno. Sbaglia ripetute volte battendo sulla tastiera e rimuove gli errori imprecando sottovoce, quasi mimando solo le parole. Poi, ricordandosi di essere osservato, sostituisce le imprecazioni con spasmi nervosi ai lati della bocca.
Si arrende alla macchina e la spegne per riporla nel suo contenitore. Gli occhiali ritornano quelli di prima. Si prepara ad essere divorato nel suo intimo, ma sono soddisfatto e mi riconpongo al mio posto, cosciente che lui non sarà sereno finchè non poggerà di nuovo piede sulla banchina al nostro arrivo, libero di fuggire dai miei sguardi.

(2005)

sabato 13 ottobre 2012

Ambizione

Per oggi niente racconti, ma un po' del mio pensiero attuale.

L'ambizione è dolorosa, specie quando la meta è distante e sembra irraggiungibile, quando sulla tua strada si profilano più ostacoli che occasioni ed è facile cedere allo sconforto, alla depressione.
Personalmente ho due sogni, legati uno all'altro ed entrambi vacillano spesso, ma restano.
Perché?
Perché nonostante la fragilità, l'instabilità della mia psiche, sono testardo e se tengo a qualcosa, sbatto la testa fino a romperla, per poi medicarla e tornare a sbatterla.
Da un certo punto di vista, i periodi di merda, hanno la loro utilità: aiutano a scegliere le persone che vuoi tenere accanto nel tuo percorso, scindere quelle che ti stanno accanto a prescindere e quelle che lo fanno perché quando sei radioso, hai la forza distruttiva di un uragano intrappolata nella mente e sai come liberarla.
Il lato negativo è che la depressione rende ciechi e pur sapendolo, non si riesce a vedere. A volte c'è bisogno di qualcuno che sappia tenderti una mano e accompagnarti fuori dall'oscurità in cui ti sei perso, ma quando hai poche persone di cui ti fidi davvero, è tosta.

Ho due grandi sogni e li avvererò, o soccomberò dando tutto me stesso e anche più di quel che posso dare, perché questo vuol dire essere me, donare a prescindere da quel che si ha.
La strada è lunga, tortuosa ed ho solo intravisto le insidie che nasconde, ma il traguardo, va ben oltre ogni contentino possa dare la vita.
Non mi interessa l'arrivo facile, la spintarella per arrivare in fondo. Preferisco devastarmi di continuo, ma fare tutto con le mie forze, anche se molte volte mi sembra di non farcela e mi fermo.
So cosa ho dentro, passo fin troppo tempo ad analizzarmi per non saperlo e so bene che se giudico merda tutto quello che faccio, è solo perché so di poter dare di più, o meglio VOGLIO dare di più.
Ogni livello di apprendimento, implica un più alto livello di critica e il peggior critico che troverò sulla mia strada, sono io. Continuerò a distruggere il mio lavoro perché non mi basta mai. Io cerco la perfezione, quella assoluta ed insindacabile, non quella che soddisfa che guarda la tua opera, ma quella che finalmente mi porterà ad amarmi.

Negli ultimi tempi, mi è stato più volte dato del genio e personalmente non penso di meritarlo, non ancora. Mi è stato riconosciuto un talento che ancora è più che latente. Vorrei tanto che chi mi riempie di complimenti possa vedere con i miei occhi per un giorno, sentire quello che sento, provare quel che provo, immaginare quel che immagino. Solo a quel punto potrebbe capire REALMENTE dove voglio arrivare e capirebbe quanto banale e maldestro sia tutto ciò che ho creato finora.
Forse sono davvero un genio, ma ancora non l'ho dimostrato. Tutto quel che avete visto, non è che un pallido riflesso di quello che vorrei esprimere. Certo, c'è cuore, perché lo metto in tutto quel che faccio, rischiando più volte di ferirlo per l'ennesima volta e non riuscire più a rialzarmi, eppure continuo, a volte correndo a volte strisciando, ma continuo, perché non c'è nulla di più bello del mio traguardo: la felicità.

Un grazie sentito per quelle persone che credono in me anche quando non ci credo io, che nonostante i miei tentativi di isolarmi, continuano a starmi vicino. Grazie dal profondo della mia anima.

venerdì 12 ottobre 2012

Sharon Tate

La luce invase la stanza con violenza. Il buio era stato padrone li per molti anni.
"Mette i brividi vero?" - disse Sara guardandosi intorno - "Si, ma è solo il concetto che hai di questo posto. Pensa di essere nella vecchia casa dei tuoi nonni." - commentò asciutto Gavin togliendo una torcia dalla cinta porta arnesi.
Dal retro della casa si sentì una voce che urlava: "Fatto! Andata?" - Gavin si sporse dalla porta ed urlò in risposta - "No! Credo abbiano staccato tutto! Dovremo arrangiarci! Vieni a dare un'occhiata, voglio un parere!".
Un ragazzo magro e slanciato in camicia hawaiana e jeans spuntò dal retro e si diresse verso l'ingresso - "Che vuoi sapere?" - disse rivolgendosi a Gavin. Per tutta risposta quello gli mise la torcia in mano e lo spinse attraverso la porta - "Voglio sapere se riesci a dargli la luce adatta con quello che abbiamo".
Stan puntò la torcia verso il lampadario ricoperto di ragnatele. Un tempo doveva essere stato uno splendore, in cristallo e ferro battuto. Ora gran parte dei prismi di cristallo erano rotti e molti giacevano sul pavimento con la piccola asola di aggancio che spuntava come un moncherino.
"Credo che anche un incompetente potrebbe fare qualcosa di favoloso qui! Si respira ancora l'odore di sangue" - disse Stan elettrizzato. Al sentirlo, Sara annusò l'aria, facendo scoppiare in una fragorosa risata gli altri due.
"Scusa Sara, è che delle volte, non capisco davvero se sei ingenua o cosa!" - disse Gavin cercando di non riprendere a ridere. Sara li guardò con la classica faccia di chi ha in mente solo un gigantesco punto interrogativo "Perché dici questo?" - chiese. Il ragazzo la guardò per qualche secondo, poi con un gesto della mano liquidò la faccenda - "Niente, tranquilla. Scarichiamo il furgone?".
I tre ragazzi si diressero verso il piccolo furgone rosso parcheggiato nel vialetto ed iniziarono a scaricare faretti e stativi. Sara prese una cartella e da dentro prese un foglio.
"Gavin.. qui dice INIZIO RIPRESE ORE 19.00, è una versione sbagliata del piano di lavorazione?" - il ragazzo le passò accanto con un grosso rotolo di cavi - "No no, è quello giusto". Sara scosse la testa - "Ma sono le 8 del mattino! Cosa facciamo qui da quest'ora?" - "Vedrai!" - rispose Gavin prima di oltrepassare la porta.
La ragazza andò sul retro del furgone - "Cosa dobbiamo fare prima dell'arrivo degli attori?" - chiese a Stan. Il ragazzo la guardò e con un sorrisone le rispose - "Vedrai!".


Ora la stanza era perfettamente illuminata. Stan sapeva esattamente come arrangiarsi con poco e non perdeva occasione per dare sfogo al suo talento.
"Bene, siamo pronti" - disse Gavin - "Qualcuno di voi è a conoscenza della leggenda di The Downward Spiral?" - gli altri due ragazzi scossero la testa - "I Nine Inch Nails, registrarono l'album all'interno della casa di Sharon Tate, la villa dove Charles Manson e la Famiglia massacrarono lei e tutti gli invitati. La leggenda dice che in alcune tracce dell'album, si sentano dei rumori che non sono stati inseriti dalla band" - Sara si alzò in piedi - "No Gavin! Avevi detto niente sperimentazioni macabre!" - e si incamminò verso la porta. Stan corse verso di lei per fermarla - "Tranquilla! Nessuna sperimentazione macabra. Ma non abbiamo scelto questo posto a caso. Qui, 20 anni fa, un padre di famiglia perse la testa e prima di suicidarsi, massacrò la famiglia, c'è chi dice con un fucile e chi sostiene che usò un martello. Il punto è il seguente: siamo bravi in quel che facciamo, ma ai festival, i nostri lavori vengono ignorati. Certo, il pubblico di nicchia ci adora, ma noi vorremo avere qualche riconoscimento ufficiale. Cosa potrebbe dare abbastanza rilievo ad una produzione a basso budget come la nostra? Pensa a The Blair Witch Project! Con una bufala e pochi dollari, hanno fatto un pezzo di storia del cinema. Suggestione, tutto qui".
Sarà si calmò - "Ma perchè venire qui da presto?" - protestò. Gavin le andò incontro e la abbracciò - "Una bufala, va saputa raccontare ed io sono un perfezionista, quindi voglio delle ambientali dell'ora esatta della carneficina. Un conto e dire di averlo fatto, un altro è farlo davvero! Non sentirai nulla, te lo assicuro" - si spostò verso il centro della sala, sotto il lampadario ed allargando le braccia disse - "Questo posto è morto come i suoi proprietari!". L'eco portò la voce di Gavin in tutte le stanze della casa. Quando il silenzio tornò a regnare, Sara, titubante ma decisa a fare quello che le chiedeva il suo regista, tirò fuori dallo zaino le cuffie, aprì il portatile e collegò il microfono.
"Datemi 10 minuti di silenzio assoluto ragazzi!" - disse, ma Gavin e Stan erano già dietro di lei e fissavano il monitor del computer.
Rec.


Il silenzio era totale, al punto di riuscire a distinguere chiaramente il suono del loro respiro.
A un certo punto, sullo schermo ci fu un leggero picco. Stan, senza dire nulla indicò il monitor e guardò Gavin che annuì con gli occhi spalancati. Un altro picco, questa volta leggermente più forte e costante. Il regista si morse un labbro eccitato per quello che stava avvenendo, mentre il fotografo si guardava intorno, leggermente allarmato. Un terzo picco, sempre più alto. Gavin si portò le mani davanti al viso e continuò a fissare lo schermo con gli occhi sempre più spalancati.
Un picco, un altro, un'altro ancora, come un battito cardiaco, regolare e continuo.
Silenzio. Sara non si era mossa, era rimasta immobile a fissare lo schermo. Solo quando fermò la registrazione, gli altri due si resero conto che stava piangendo.
"Sara, che c'è?" - disse dolcemente Gavin. La ragazza si alzò di scatto, togliendosi le cuffie e buttandole a terra - "Sei una testa di cazzo!" - disse singhiozzando - "Solo una grandissima testa di cazzo!" - spinse Gavin contro la parete e si diresse verso un angolo. Stan le andò dietro e le cinse le spalle, tentando di rassicurarla.
Il giovane regista raccolse le cuffie da terra e le indossò.
Play.


Silenzio e qualche leggero rumore di fondo. Dopo un paio di minuti, un suono acuto, distante. Ancora qualche minuto, il suono sempre più vicino e più distinguibile: il vagito di un bambino.
Gavin spalancò gli occhi. Il vagito divenne sempre più chiaro e all'improvviso un tonfo seguito da un altro ed un altro ancora. Man mano che i tonfi si susseguivano il giovane capì quel che stava ascoltando. Colpi di martello.

mercoledì 10 ottobre 2012

Notturno


Più la guardo e meno riesco a coglierne il senso, la forma. Sta sul soffitto della mia camera da letto, impassibile, come se la mia presenza non la riguardasse. So che basterebbe accendere la luce per cacciarla, ma non voglio.
La sua sinuosità, il suo senso così sfuggevole, mi affascina. Potrei perdermi in quei contorni dettati da chissà quale riflesso.
Sono immerso al suo scuro corpo. Navigo con la mente su quello che un tempo era il mio soffitto, così scontato, così candido. Ora, nelle tenebre della notte, costellato di ombre assume il fascino ancestrale di un quadro dipinto da un pazzo.
Il sonno mi ha abbandonato da tempo. Mi sembra quasi che quando sposto lo sguardo, le macchie si spostino, spinte da qualche oscura corrente, o da un burlesco gioco perpetrato alla mia serenità. Domani mi sveglierò, e scoprirò la banalità degli oggetti che le hanno proiettate, ma non ora. una pioggia di luce incandescente le ferisce per un secondo. Una macchina sfreccia a pochi metri da me, e la serranda filtra le sue luci, trasformandole in lame che tagliano le mie amiche.
Loro però sono resistenti, e in pochi secondi sono di nuovo al loro posto, beffarde e immobili.
Ora decido appoggio il mio dito sull'interruttore, preparandomi alla banalità di un soffitto senza ombre.

CLIC.

(2005)

Lucida-mente


Ho chiuso. Stavolta ho davvero chiuso. Appoggio gli occhiali sul cornicione e sento per l'ultima volta il vento freddo che mi scompiglia i capelli vado giù veloce, giusto il tempo di riorganizzare tutti i pensieri e forse, rivedere la vita come un film come si dice. Attendo l'impatto, quello che mi darà finalmente l'oblio di una dolce morte poco dolorosa. A breve la mia testa si fracasserà sull'asfalto di sotto e io smetterò di pensare. Quel che avverrà dopo non mi importa. Eccolo lo vedo è vicino.
Impatto!


C'è qualcosa che non va. Non sento dolore ma vedo tutto. Una piccola folla mi si è raccolta intorno. Una ragazza grida. Non devo essere un bello spettacolo. Vorrei alzarmi e scappare, ma non riesco a muovermi. Non ho alcuna voglia di spiegare perché l'ho fatto. Troverò un posto più alto appena riuscirò ad alzarmi.
Non sento nulla. Non riesco a chiudere gli occhi. Riprovo. Piano. Muovi un dito. Forza! Nulla.
Intanto è arrivata l'ambulanza. Mi aspetto già le domande. Perché, percome, per chi. Non risponderò.
Un paramedico mi tasta il collo. Non sento la pressione delle dita. Un pensiero mi aggredisce con violenza: e se avessi danneggiato qualcosa nella caduta e ora fossi paralizzato? Oddio no! Non lo sopporterei! Tutta la vita a pensare e non potere agire! Non potrei nemmeno farla finita perché non riesco a muovermi.
Il paramedico ritira la mano e guarda il portantino accanto a lui scuotendo la testa. Che succede? Sono vivo!
Nel frattempo è arrivata la polizia. Vedo il paamedico che va verso l'agente sceso dalla macchina. L'agente mi guarda e scuote a sua volta la testa.
Un altro portantino scende dall'ambulanza con un lungo sacco nero in mano. Ora i portantini aiutati dal medico mi adagiano nel sacco e chiudono.
Ora è buio.
C'è un errore! Io non sono morto! Ragiono, vedo, sento ogni cosa, tranne il dolore.
Sento ogni singolo rumore, ogni fruscìo del mio corpo sulla tela plastificata del sacco, lo sciabordio del sangue che si va accumulando sul fondo.
Il mio orrore cresce sempre di più. Ora l'ambulanza si è fermata. Aprono il portello.
Deve essere arrivato il momento in cui mi analizzeranno il sangue per stabilire se fossi drogato. Allora il coroner capirà che sono ancora vivo e io passerò tutta la vita che mi rimane su una fottuta carrozzina. Vedo la luce. la faccia di un uomo dai folti baffi grigi che mi guarda. Quei freddi occhi osservano il mio corpo. Ora prende una siringa e la affonda nella carne. Non sento nessun dolore. Aspetto il momento in cui si renderà conto che sono ancora vivo.


Inizio a pensare che qualcosa non va.
Un freddo pensiero mi attraversa la mente come una dolorosa scarica e capisco. Io sono morto sul colpo, ma la mia mente è viva! E' dunque questa la morte? L'eterna coscienza di essere morti? Nessun paradiso, nessun oblio! Solo lucida coscienza della propria morte. Un'infinità da passare a pensare? Ora vorrei rivivere! Lo vorrei davvero. Vorrei non avere mai fatto il tuffo. Voglio tornare indietro nel tempo e andarmene da quel cornicione, riabbracciare tutte le persone che amo e mi amano.


E' passato già un giorno dalla mia morte. Ora stanno chiudendo la bara. Ho visto tutte le persone a me care piangere per me ed io avrei voluto piangere con loro, urlare, ma non ho potuto. Starò al buio per l'eternità.


Sento freddo.

(2005)